La notte è ricca di magìe. Allunga le ombre e con esse an-che la realtà assume un’altra dimensione. Così come i ricordi. Gli eventi più straordinari forse diventano tali nell’immaginario collettivo proprio perché sono vissuti di notte. Lo sbarco sulla Luna, per noi italiani, sarebbe stato lo stesso se fosse accaduto con il pieno abbagliante sole? La straordinarietà dell’evento, di quel 14 novembre 1985, è accresciuta da un senso di mistero, di profetico che si mischia allo sconosciuto che solo in pochi sono in grado di interpretare. Come quelle donne e quegli uomini in camice azzurro che si muovono a passi impercettibili, così come i loro gesti, che fluttuano nell’aria resa ancora più opprimente da un’umidità che tutto avvolge, rendendo l’ambiente circostante ancora più magico, ancora più etereo. Ci sono eventi che restano nell’immaginario collettivo, ma intimo di un popolo, di una nazione, di una città. Il tempo poi inevitabilmente ci priva dei protagonisti, anche dei testimoni. La notte tra il 13 e il 14 novembre 1985 è rimasta nell’anima dell’intera Padova. E non stupisca se poi, quindici anni dopo, in occasione di un referendum a ridosso del 2000, alla fine del Novecento, proprio il professor Vincenzo Gallucci è stato votato come il padovano del secolo, come colui che maggiormente ha inciso nella storia, nelle glorie del suo popolo.
È stata una notte irreale quella del 14 novembre 1985, difficile da descrivere, perché consumata in un luogo che nulla ha di simile a tanti set cinematografici e televisivi che le fiction degli anni a venire ci hanno poi regalato in così larga serie. Nulla da medici in prima linea, niente a che vedere con la raffigurazione del dio medico capace di capire, interpretare, e pertanto sconfiggere, la morte. I corridoi, gli scantinati, che avvolgono le sale operatorie di Cardiochirurgia del Policlinico di Padova, assumono contorni irreali. Ogni ombra, ogni strumento, ogni apparecchiatura ab- bandonata assumono sembianze spettrali. Dentro ci sono quelli che stanno scrivendo la storia, gli altri tutti fuori a far da testimoni passivi, ma partecipi. Servono entrambi. Il protagonista e lo spettatore, per una volta sono uniti dallo stesso destino, vivendo di luce riflessa.
Nonostante l’apparente calma, l’intero ospedale sa. È a conoscenza che qualcosa di fantastico sta per avvenire. Del resto il lungo tira e molla che ha scandito le ore dei giorni precedenti è stato vissuto da tutti come un inevitabile, quanto estenuante, passaggio verso la storia. Dio lo vuole. Ha incastrato magistralmente i mattoncini della vita.
Ha scelto il ragazzo più bello, più forte, più generoso e lo ha trasformato nel donatore ideale. A Treviso, in sala operatoria, al fianco di Gallucci, c’è anche Carlo Valfrè, uno degli allievi prediletti, al quale è demandato il compito di aprire il torace di quel ragazzo così pieno di vita, di così tanta umanità e di voglia di aiutare gli altri. Sul cadavere di Francesco sono recise l’aorta, l’arteria polmonare, le quattro vene polmonari e le due vene cave. Tutta l’operazione dura appena sei minuti. Gallucci vuole al suo fianco Giuseppe Faggian, il quale scandisce i tempi dell’intervento come previsto dai quei protocolli così tanto studiati, così tanto curati nei minimi particolari. Nulla deve essere lasciato al caso e la tempistica è eccezionalmente rispettata. Il cuore di Francesco, così giovane, si contrae in maniera vigorosa, è imballato in un contenitore di plastica, immerso in un liquido congelato, acqua e ghiaccio. La soluzione cardioplegica e il trasferimento in sacchetti contenenti soluzione fisiologica a 4° centigradi permette all’organo di resistere in simili condizioni per circa quattro ore, un margine sufficiente per completare il trasferimento fino a Padova. Il cuore dentro il piccolo frigorifero è ora nelle mani di Gallucci che lo appoggia sulle sue ginocchia. Alle 3.10 un’anonima Mercedes grigia si muove dal “Ca’ Foncello”: alla guida Giovanni Stellin, al suo fianco Gallucci, dietro Giuseppe Faggian. Il corteo è aperto e chiuso da due pattuglie della Polizia Stradale a far da scorta, ad accompagnare quel procedere deciso verso un altro ospedale, il Policlinico di Padova dove c’è già un uomo con il petto aperto: è Lazzari. È una serata nebbiosa con il manto stradale viscido, reso scivoloso da una nebbia ghiacciata che si deposita sull’asfalto. Il destino si sta compiendo anche se un altro piccolo brivido è concesso a una scenografia che ha ritmi cadenzati. La Mercedes prima di imboccare l’autostrada che porta poi alla fettuccia di Mestre, e da lì sulla Serenissima, ha una leggera sbandata. È solo un attimo, superato da sorrisi che però tradiscono la tensione, la consapevolezza dell’essere a un passo dal cambiare i destini di migliaia di italiani. Intanto Ilario a Padova è messo in circolazione extracorporea, gli tolgono il muscolo cardiaco. Non si tratta di rimuoverlo completamente, bensì si asporta a livello di atri, lasciando in sede sia la parte posteriore che quella delle pareti. Detto volgarmente non si tratta dunque di una sostituzione completa, ma di innestare il cuore nuovo su quella che è chiamata placca atriale.
Il reparto di Cardiochirurgia è già sprangato dalla mezzanotte. Agenti di Polizia e Carabinieri diretti dall’ispettore Quaresima, bloccano chiunque voglia entrare. L’arrivo di giornalisti da tutta Italia colora il clima delle sensazioni da grande evento. L’emozione prende anche chi non è coinvolto in prima persona. Infermieri e barellieri confermano in presa diretta. Avvicinarsi al reparto è impossibile, figurarsi alla sala operatoria. Le voci rimbalzano incontrollate. È mezzanotte, arriva anche l’avvocato Giorgio Fornasiero, presidente dell’Usl 21 di Padova. Con lui c’è il professor Luigi Diana, direttore sanitario. Tocca a loro il compito di informare, di tenere a bada la stampa. Il filo diretto Treviso-Padova è continuo e necessario. La tempestività è fondamentale. Scorrono i minuti, le ore, in un coordinamento perfetto. Alle 2 di giovedì 14 novembre 1985 il segnale tanto atteso: Ilario è trasferito in rianimazione, accanto c’è la sala operatoria. Il petto è aperto da Alessandro Mazzucco e Uberto Bortolotti appena il cuore parte da Treviso, circa mezz’ora prima. L’androne del Policlinico si riempie di giornalisti, telecamere, fotoreporter. Decine di inviati, sembra di essere tornati ai tempi di Enrico Berlinguer e ancora una volta Padova è al centro del mondo. Alle 3.10 Francesco, il cuore di Francesco, come abbiamo detto lascia per l’ultima volta Treviso. All’arrivo al Policlinico di Padova il frigo portatile passa dalle mani di Faggian e Stellin al tavolo operatorio. Il rito del lavaggio precede l’inizio dell’intervento.
Sono le 4, si comincia. Fuori un velo di foschia regala umidità e una leggera pioggerellina. L’ospedale dorme, in una sala operatoria medici e infermieri in verde stanno compiendo un miracolo. Ad accompagnarli c’è la musica, le note di Beethoven, quelle preferite da Gallucci, che avvolgono uomini, donne e oggetti, speranze e sogni, dolore e scienza. Le mani di Gallucci si muovono come un maestro d’altri tempi, come un mago, un illusionista che riesce a incantare. Ma la sua è una magìa intrisa di scienza e sapienza. Accanto al maestro ci sono Mazzucco e Bortolotti. Alla testa del letto operatorio una lista con la sequenza dei passaggi che Carlo Sorbara e Giuseppe Faggian scandiscono con intenza attenzione. Attorno, fuori, c’è l’attesa, i giornalisti che vagano tra corridoi silenziosi e ambulatori sprangati, alla ricerca delle macchinette del caffè. Bisogna far passare la nottata.
Dentro, nella sala operatoria dove si sta compiendo il miracolo della vita che toglie alla morte per restituire alla vita, si procede con fasi chirurgiche composte, non concitate, condotte con geo- metrica precisione. Il cuore di Francesco è suturato con le pareti atriali e collegato con l’arteria polmonare e l’aorta, per ristabilire la circolazione coronarica. Poi è espulsa l’aria dalle cavità cardia- che. Il cuore di Francesco risulta più piccolo di un quarto rispetto a quello di Ilario, creando qualche problema. Del resto Busnello pesa 70 chili, Lazzari 85. Ma, miracolosamente, il cuore nuovo di Ilario riparte spontaneamente a ritmo sinusale, senza bisogno di stimolo elettrico al primo battito la perfusionista Luigina Stievano non sa trattenere un applauso. Gallucci, che ha usato la tecnica messa a punto dai colleghi cardiochirurghi di Pittsburg, finalmente ha vinto le sue tante battaglie. Il petto di Lazzari è chiuso da Mazzucco, Bortolotti e Faggian. Il vecchio cuore di Ilario, che ancora batte in maniera vermicolare, è appoggiato in una bacinella e consegnato a Gaetano Thiene e Mauro Paggetta che si spostano all’Istituto di Anatomia Patologica, piazzata oltre l’ospedale Giustinianeo. Per la prima volta un patologo italiano ha in mano il cuore di una persona viva e, per la prima volta nella storia, l’Istituto di Anatomia Patologica di Padova resta illuminato tutta la notte per un trapianto. La fissazione in formalina del cuore di Lazzari, con iniezione diretta nelle arterie coronariche, è effettuata da Paggetta.
Il vecchio cuore di Ilario pesa ben 850 grammi, è sezionato in quattro camere, appare come una classica miocardiopatia dilatativa con estrema dilatazione biventricolare. Il patologo padovano preleva il fascio di His per l’indagine ultrastrutturale, oltre che istologica. Dal punto di vista medico è riscontrata una gravissima atrofia delle fibre del tessuto di conduzione alla biforcazione, come classicamente osservato nei blocchi atriovetricolari acquisiti. In quelle condizioni il cuore avrebbe potuto continuare a battere solo per poche settimane ancora.
Mentre Thiene e Paggetta compiono gli accertamenti, il gruppo di Gallucci lascia la sala operatoria. È concesso il piacere di un brindisi, prima di trovarsi di fronte alla decina di giornalisti che hanno bivaccato tutta la notte in attesa di notizie. La grandezza di Gallucci non si smentisce. Lui, l’uomo capace di grandi sogni, chirurgo immenso dal grande prestigio internazionale, è riuscito a creare degli allievi sui quali ha puntato per il suo grande progetto del visionario realista. In tutto quindici persone partecipano allo storico evento. Oltre al professor Vincenzo Gallucci, all’epoca 50 anni, anche l’Aiuto Alessandro Mazzucco (Venezia, 41 anni), gli assistenti Uberto Bortolotti (Udine, 37 anni), Giovanni Stellin (Treviso, 36 anni) e Giuseppe Faggian (Padova, 33 anni). Tre gli anestesisti: Gianpiero Giron (Padova, 51 anni), Carlo Sorbara di Treviso e Maurizio Dan (Mirano, 35 anni), Francesco Cirillo di Soverato. L’équipe è completata da due strumentisti: Elisabetta Cattelan (Vicenza) e Franco Bano (Padova). Anche due i perfusionisti. Amedeo Voltan e Luigina Stievano. Infine la caposala Nuccia Luisetto (Padova) e l’infermiere di sala Mario Borgato (Padova).
Il primo trapianto di cuore in Italia dura in totale appena tre ore. Alle 7 mattino del 14 novembre 1985 il cuore nuovo infilato nel petto di Ilario funziona perfettamente, consentendo di tornare alla circolazione normale. Alle 11 Lazzari si sveglia, per lui inizia una vita nuova, esaltante, drammatica. A seguirlo fin dal primo momento c’è Faggian. Il loro rapporto è speciale. Se Ilario per Gallucci ha un’autentica venerazione, in Faggian ha stretta confidenza e appena apre gli occhi gli confida di sentirsi un leone e ha voglia di una pasta asciutta. Gli angeli custode di Lazzari tornano a casa dopo due giorni trascorsi ininterrottamente in Terapia Intensiva, al fianco del primo trapiantato di cuore italiano. C’è da impostare la terapia e seguire il paziente fino allo svezzamento dal respiratore. Il decorso post-operatorio del falegname di Vigonovo non si dimostra semplicissimo. Quattro fialette rosse, contenenti un siero antilifocitario prodotto iniettando linfociti umani nei cavalli e inviati da Charles Bibier da Stanford, producono a Ilario una reazione allergica. Lazzari è anche costretto a un successivo ricovero al Policlinico di Milano per una epatite. Probabilmente è qui, oppure successivamente quando torna per un ulteriore ricovero al Policlinico di Padova, che gli è praticata una trasfusione con sangue infetto. Insieme a lui a essere colpita dal virus dell’HIV, anche una ragazza. Le sacche hanno l’identica provenienza, il Centro Trasfusionale di Milano da dove all’epoca solitamente arrivavano, ma anche da Verona, gran parte delle donazioni per l’ospedale di Padova.
Il destino non farà sconti a nessuno dei tre maggiori protagonisti del primo trapianto di cuore italiano. Non è stato certo benevolo con Vincenzo Gallucci, morto a 55 anni in un incidente stradale vicino Verona la sera del 10 gennaio 1991. Sofferenze non sono state risparmiate neppure al ministro Costante Degan, stroncato a Mestre a 58 anni da un tumore ai polmoni la mattina del 1 luglio 1988. Lui che si era battuto contro il fumo delle sigarette con caparbietà, ostinazione e convinzione profonda. Una battaglia portata avanti nell’interesse collettivo, a colpi di leggi ma anche con la forza, paziente e tenace, della persuasione, che era una delle sue caratteristiche. Infine il destino non è stato certo buono con Ilario Lazzari, morto a 46 anni a Padova, il 12 giugno 1992, per colpa di quella trasfusione di sangue infetto fatta nelle settimane subito successive al suo trapianto di cuore. A stroncarlo un’infezione polmonare, figlia della maledizione del secolo, l’Aids.