Il Ciao di Francesco

In Contributi

Dei genitori si aspetteranno sempre di vedere qualche tratto del carattere del loro figlio, qualche segno della sua personalità, nell’uomo che ne ha ricevuto un organo. Anche noi ci eravamo illusi, per poi renderci conto che il cuore non è la sede dei sentimenti, come vorrebbero le credenze popolari e il senso comune, ma è solamente un muscolo.

Francesco Busnello aveva appena 18 anni quando, suo malgrado, è passato alla storia come il primo donatore di cuore italiano. Francesco non era un ragazzo come tutti gli altri. Primogenito di tre fratelli, Eleonora di 10 anni e ed Enrico di 16, frequentava la V B meccanici all’Itis Fermi di Treviso. Da poco rieletto rappresentante all’interno del Consiglio di Istituto, era uno di quelli sempre in prima fila, molto attivo nel coordinamento studentesco. In prima fila anche nel suo impegno da cristiano. Come catechista insegnava religione ai bambini della parrocchia di Santa Bona. Scout da sempre, era cresciuto dividendosi tra scuola, chiesa e sport, visto che giocava a pallamano con l’Associazione di Treviso. Abitava con i genitori Giovanni e Marina, il fratello e la sorella, a Treviso, in via Bezzeca. E a casa stava tornando quando a Vascon, la sera di venerdì 8 novembre 1985, con il suo Ciao, il motorino preferito dai ragazzi italiani dagli anni Sessanta fino agli anni Ottanta, non si ferma a un incrocio male segnalato ed è investito in pieno da un’auto. La mancanza di casco, non obbligatorio all’epoca, fa il resto. Poi la corsa all’ospedale “Ca’ Foncello”, la lunga attesa, l’intervento al cervello per rimuovere l’ematoma che si era procurato nel violento impatto. Infine il progressivo peggioramento, la morte cerebrale, la donazione, alle ore 23 del 13 novembre 1985. Un gesto, quello della famiglia Busnello che ha permesso all’Italia di fare un grande balzo sotto il profilo medico, sociale e umano.

Francesco Busnello

I sei giorni in rianimazione di Francesco sono stati per tutti noi, genitori e fratelli, sei giorni di tormento e di smarrimento vissuti con la speranza che potesse esserci una ripresa. La nostra fede ci ha dato la speranza in un miracolo, che abbiamo chiesto con insistenza. È stata anche una fase nella quale abbiamo sperimentato un rapporto nuovo con i medici: credo sia stato uno degli aspetti determinanti per la scelta che abbiamo fatto. Il rapporto è stato costante, l’ informazione molto puntuale per cui abbiamo avuto la consapevolezza di cosa stesse succedendo a nostro figlio e quali potessero essere anche gli esiti. Quello che ci ha creato quasi il panico è stato il titolo del giornale di quel giorno, di quel 13 novembre, che annunciava: Trapianto di cuore, oggi si può. Questo era il titolo a tutta pagina del giornale che avevo letto la mattina, e quando hanno telefonato dall’ospedale per invitarci a un colloquio, ci siamo andati con il cuore in tumulto, perché temevamo che ci chiedessero veramente di dare la disponibilità al prelievo. E infatti così è stato. È un po’ difficile descrivere quali sono le sensazioni di una persona o una famiglia che vive in situazio- ni come quelle, che sono insieme di disperazione e sconforto ma anche di sconfitta e impotenza. Il contesto esterno non aiuta. In quei giorni alcuni conoscenti, e qualche amico, ci hanno avvicinato per dirci che non avrebbero avuto il coraggio di autorizzare il prelievo degli organi, altri che sarebbe stato opportuno non farlo, perché esprimere il consenso alla donazione voleva dire chiudere ogni speranza. Ma noi avevamo capito, ed ecco perché ritengo che il rapporto con i medici sia stato determinante, perché non c’era più speranza per Francesco e quindi dovevamo mettere insieme tutti i ricordi e fare appello a tutte le energie per capire se Francesco avrebbe fatto una scelta di questo genere. Direi che tutti i comportamenti, lo stile di vita di nostro figlio è stata un esempio di altruismo e di socialità. Questo ci ha dato la forza per dare il nostro consenso. Quell’esperienza l’abbiamo vissuta in maniera anomala perché era il primo trapianto di cuore in Italia, perché era un evento che è andato su tutti i giornali, sono arrivate le televisioni e, quindi, non abbiamo potuto vivere il momento con il riserbo che normalmente dovrebbe esserci in situazioni analoghe, anche se devo riconoscere che una parte dei giornalisti è stata discreta, e perciò abbiamo vissuto senza affanni anche il disagio provocato da tutto questo clamore. Abbiamo poi saputo subito chi fosse il destinatario della donazione e abbiamo intrapreso dei rapporti relazionali umani con Ilario Lazzari e con la sua famiglia. Abbiamo vissuto anche una fase, chiamiamola così, un po’ difficile per noi, perché nella nostra cultura il cuore è la sede dei sentimenti. Nonostante la positività del rapporto con Ilario è maturata in noi la convinzione che sarebbe più opportuno che la famiglia del donatore non conoscesse mai il ricevente, e viceversa. Non dico che debba essere per tutti così, ma credo che ci sono molti fattori di cui si potrebbe parlare che portano a questa considerazione. Dover scegliere in momenti drammatici, come quelli che abbiamo vissuto noi, senza un’adeguata preparazione preventiva, una conoscenza adeguata, è un altro degli aspetti che ci ha fatto riflettere. Ritengo sia necessario avere le informazioni adeguate  non solo nel momento dell’evento tragico, ma prima che questo avvenga; quindi l’opera delle associazioni che sensibilizzano sul tema dei trapianti ricopre un ruolo fondamentale, un ruolo essenziale e dovrebbero tutti, giovani e meno giovani, essere informati per poter avere la consapevolezza della scelta che si può fare nel momento in cui non c’ è più speranza per noi o per i nostri cari. Credo che questo sia l’aspetto da valorizzare, questo è un impegno per tutti, è un impegno per le istituzioni, le quali devono sostenere e valorizzare queste risorse. Nostro figlio aveva scritto alcuni pensieri sul significato della vita. Mi piacerebbe ricordare Francesco con le sue stesse parole legate ad alcune riflessioni: «La vita non può essere completa se non ha una meta e questa può essere una nostra scelta seguendo la nostra vocazione.»

In ospedale fu lo stesso Giovanni Busnello, papà di Francesco, a chiedere se ci fosse l’intenzione di espiantare anche il cuore. «Non ci è ancora arrivata alcuna comunicazione» risposero im- preparati i medici. La determinazione del cardiochirurgo Carlo Valfrè a Treviso e del professor Vincenzo Gallucci a Padova fecero il resto. A Treviso il primo espianto di cuore d’Italia, a Padova il primo trapiantato.

Giovanni Marina Busnello

Mia moglie ha sempre detto che lo rifarebbe – spiega Giovanni – Io sono stato lacerato dai dubbi: nessuno ci aveva preparato e l’ambiente ci ha insinuato il dubbio di una decisione presa con troppa fretta. Ma in ospedale i medici ci hanno sempre spiegato molto chiaramente la situazione di Francesco. Espiantarono i tessuti e le cornee. Ma solo il cuore di Francesco è passato alla storia. Ne parlo con ragion veduta, per aver conosciuto e frequentato Ilario Lazzari. Noi tutti ci eravamo creati delle aspettative nei suoi confronti, pensando che una parte di nostro figlio continuasse a vivere in lui. Ma riconosco che è stata un’aspettativa ingiusta, che ha creato in noi solo disagio. E ho notato come lui nutrisse nei nostri confronti una specie di sudditanza, un sentimento di speciale riconoscenza come non dovrebbe essere. Anche questo sentimento è ingiusto. La Legge dovrebbe tenere riservata la destinazione degli organi espiantati.

E conclude: Quando Ilario Lazzari morì, nel 1992, fu come perdere Francesco una seconda volta.