Il passaggio tra lo stato di neo-marito a quello di emigrante, seppure di professione prestigiosa, dura appena poche ore.
Partimmo il giorno successivo per New York: ci fermammo solo un paio di giorni, sufficienti per farci una vaga idea della affascinante città e per renderci conto, se ce ne fosse stato bisogno, della scarsa conoscenza della lingua. Malgrado la difficoltà di esprimerci, riuscimmo a prendere l’aereo per Charlotte, nel North Carolina, tipico stato del Sud, ricco di boschi, con un bel lago, un clima mite anche in inverno, molto caldo e umido in estate. Charlotte, in particolare, è una città con eleganti quartieri residenziali, fioriture di alberi di dogwood, spazi verdi e tanta vegetazione lussureggiante. Enzo prende contatto con l’ospedale, una costruzione praticamente nuova con una facciata bianca che risalta in contrasto con il verde dei prati che lo circondano. Altrettanto piacevole e nuova poco lontano è la costruzione dove abitano quasi tutti gli interns e i residents. Ci fu assegnato un piccolo appartamento in questo edificio: una soluzione conveniente e alla portata delle nostre tasche. Trovammo un ambiente alquanto internazionale: medici inglesi, indiani, pakistani, ungheresi. Gli italiani non godevano di una buona fama: sneaky, volgari e anche sporchi. Noi stupimmo non poco anche, cosa buffa, per il nostro aspetto fisico. Eravamo decisamente curati: Enzo con il suo aspetto lindo e io con i miei completini di Pucci e il guardaroba stile lady Kennedy.
L’incontro che il futuro padre della cardiochirurgia italiana ha con Francis Robicsek, il direttore dell’Istituto di Cardiochirurgia dell’ospedale di Charlotte, si rivela alquanto freddo. Robicsek è un chirurgo di notevole spessore, approdato negli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale, fuggiasco dall’Ungheria invasa dai Russi. Nonostante i suoi trascorsi da rifugiato, il medico unghe- rese è prevenuto nei confronti degli italiani, frutto di una precedente infelice esperienza con alcuni medici romani che si erano appropriati di suoi lavori e li avevano pubblicati in Italia con il loro nome. Alla fine di quel primo incontro gelidamente Robicsek raccomanda a Gallucci di non mangiare aglio, di usare deodoranti e di lavarsi molto. Il chirurgo ungherese, pioniere della chirurgia a cuore aperto, è però un personaggio di valore in tutti i sensi. Tantissimi gli aneddoti legati alla sua vita e alle sue passioni. Un giorno, mentre lavorava nel garage dietro alla sua casa, si era messo ad armeggiare con viti e bulloni. Da quell’esperimento ne ricavò alcuni componenti che sono stati fondamentali per creare il primo cuore meccanico. Grande appassionato d’arte è stato anche un sofisticato collezionista. Iniziò da giovane a Budapest occupandosi di dipinti ungheresi e di arte olandese dei secoli XVI e XVII, per poi passare all’arte coloniale spagnola, alle icone russe e, dopo essere sbarcato negli Stati Uniti, di ceramiche maya. Fu lui a decifrare il codice maya, permettendo agli studiosi di rapportare le pittografie trovate sulle ceramiche ai geroglifici della scrittura maya. La sua fama arrivò anche ai responsabili del Louvre di Parigi che lo andarono a trovare a Charlotte, rimanendo impressionati dal valore e dalla quantità di opere in suo possesso. «Non mi hanno lasciato in pace – confessò poi a un suo amico – finché non gli fatto avere un pezzo, ma non gli ho dato uno di quelli buoni».
La posizione di Enzo, come Fellow, è inizialmente quella di lavorare in laboratorio. Gallucci accetta l’incarico anche se non è proprio quello per cui aveva deciso di arrivare sin lì. In appena sei mesi, però, e grazie alla sua abilità, la sua posizione cambia in quella di intern ed è ammesso alla sala operatoria. Finalmente il primo, grande traguardo, è raggiunto e con grande emozione.
In un paio di mesi le doti intellettuali di Enzo riuscirono a emergere e si ubriacò di sala operatoria. La lunga astinenza sofferta in Italia lo aveva reso insaziabile di sapere, conoscenza, pratica. Era sempre stoicamente di guardia anche quando nacquero i nostri figli, prima Stefano e poi Gloria. In entrambi i casi si fece vivo solo alla fine della giornata. Io cercavo di essere comprensiva sapendo cosa significasse per lui la sua professione. La nostra capacità di sognare è testimoniata anche dal nome della nostra secondogenita: l’ ho voluta chiamare Gloria perché portasse fortuna a suo padre. Le poche ore libere le passavamo scorrazzando per il Nord Carolina con una vecchia Falcon usata che ancora funzionava egregiamente. Quando Enzo era occupato, io guardavo la televisione, ma con una certa amarezza mi accorgevo di capire ben poco dello slang e dei riferimenti ai fatti politici. Finito l’anno di intern, mio marito ebbe la grande soddisfazione di essere nominato resident e poi Chief resident. Passava giorni e notti senza tornare a casa. Lui era molto soddisfatto, io un po’ meno, anche se mi ero affiatata con le mogli di altri medici, con le quali formavano una sorta di club, con manifestazioni varie che servivano a conoscere le abitudini degli americani e degli stranieri che provenivano da varie parti del mondo, principalmente filippine e iraniane. Il poco tempo che Enzo aveva libero lo dedicavamo a gite nei dintorni e ci rendemmo conto che le distanze americane erano alquanto diverse da quelle europee, particolarmente da quelle italiane: si potevano fare centinaia di chilometri in mezzo a foreste incontrando solamente qualche splendida villa in stile palladiano o qualche casupola abitata da gente di colore. Il Nord Carolina aveva un notevole numero di gente di colore, quasi nessuno nell’ambiente medico, almeno negli anni Sessanta. Parlavano con forte accento del Sud che li rendeva incomprensibili a noi stranieri.
In quel decennio pieno di eventi che si riveleranno decisivi per la storia americana, i medici erano tra i professionisti più quotati. A Charlotte bastava dire di essere un chirurgo per godere subito di un enorme prestigio, anche se si era ancora in training, come di fatto è per Gallucci. Enzo però è instancabile: ospedale, guardie, riesce pure a pubblicare con Robicsek parecchi lavori e anche in sala operatoria ottiene molte soddisfazioni. Come Chief resident è abilitato a eseguire interventi sul cuore. Trascorrono così tre anni: siamo al 1967 e Robicsek propone a Gallucci di rimanere a Charlotte e di diventare suo socio. È un grande onore, tanto più che in Italia si è ancora ai primordi della chirurgia cardiaca e non è certo facile inserirsi in qualche clinica. Enzo però non è ancora del tutto soddisfatto del buon training ricevuto a Charlotte, desidera vedere come Michael Ellis DeBakey e Denton Cooley, altri pionieri della cardiochirurgia, operano a Houston. in Texas, in quello che è universalmente considerato come il maggior centro di cardiochirurgia del mondo. Robicsek si rivela molto comprensivo e aiuta il giovane collega italiano a entrare nello staff di DeBakey. La posizione però è di intern: significa ricominciare il training dall’inizio. Enzo accetta la posizione che gli è offerta, troppo prestigiosa è l’opportunità. Così grazie alle pubblicazioni realizzate e alla presentazione del primario di Charlotte, di Robicsek, il futuro padre della cardiochirurgia dei trapianti italiani, riesce in breve a diventare resident, alla corte dell’immenso DeBakey.
Essere compassionevole, preoccuparsi dei propri compagni, fare tutto il possibile per aiutare la gente: questo è il tipo di religione che seguo.
Michael Ellis DeBakey aveva le idee chiare su quello che dovesse o non dovesse essere fatto. La sua vita, iniziata a Lake Charles il 7 settembre 1908 e conclusa a Houston a un passo dai cento anni, il 12 luglio 2008, è qualcosa di straordinario che merita di essere ricordata seppure brevemente. Non solo è stato il geniale ideatore e costruttore di un cuore artificiale per decenni usato nelle sale operatorie di tutto il mondo, ma le sue intuizioni hanno poi portato a importanti innovazioni in campo cardiochirurgico. E lui, nel periodo in cui presta servizio per l’esercito americano, a rivoluzionare la medicina in tempo di guerra. Diviene portatore dell’idea che i dottori dovessero essere sempre nelle vicinanze delle linee di combattimento, prestando così un più efficace soccorso ai soldati. DeBakey contribuisce allo sviluppo degli ospedali mobili, i cosiddetti MASH, unità mediche che hanno lo scopo di servire da ospedali da campo nelle aree di conflitto. L’innovazione fa crescere grandemente il tasso di sopravvissuti tra i feriti, tanto che i MASH sono utilizzati dall’esercito americano durante la guerra di Corea. Qualche anno dopo un famosissimo film americano, appunto dal titolo MASH, racconta le esilaranti e drammatiche avventure di un pugno di medici durante la guerra del Vietnam. La straordinaria carriera di DeBakey inizia ad ap- pena 23 anni quando, ancora studente dell’Università di Tulane, inventa la pompa peristaltica, la cui importanza sarà riconosciuta solo vent’anni dopo, quando diventa una componente essenzia- le della macchina cuore-polmone. È sempre DeBakey, nel 1969 insieme al dottor Ochsner, suo mentore alla Tulane University, a denunciare il forte legame tra il fumo e il cancro ai polmoni. La sua attività è intensissima: passa fino a diciassette ore al giorno in sala operatoria dove ormai lo chiamano il “Tornado del Texas”.
È un perfezionista: studia attentamente le singole operazioni da compiere, programma la sua giornata con estrema pignoleria ed è noto per avere un carattere non facile, specialmente sul luogo di lavoro. Famosi alcuni brutali rimproveri verso tirocinanti e altri medici. Alcuni sono cacciati anche per piccolissimi errori in sala operatoria.
Grazie alla presentazione di Robicsek ci trovammo sulla strada per Houston con due bambini, uno di due anni e l’altra di sei mesi, e un piccolo rimorchio che conteneva le poche cose che avevamo collezionato in quei tre anni di permanenza a Charlotte. Il viaggio era lungo, ma ci eravamo abituati alle distanza americane. Ricordo specialmente la tappa di New Orleans perché passammo due giorni nell’atmosfera magica di quella città, fatta di musica che usciva da ogni casa e da un gran vociare di gente per strada. Era proprio come rappresentavano il Sud nei vari film. Quando poi arrivammo a Corpus Christi in Texas rimanemmo senza fiato davanti al numero di yachts ormeggiati nell’enorme porto. Facemmo un lungo bagno nelle acque tiepide del golfo. Percorremmo l’ultimo tratto di strada stupendoci della natura desolata e di pozzi di petrolio segnalati dalle alte torri. Il centro di Houston era un agglomerato di shopping center con qualche vecchia chiesa dai muri anneriti. I bambini si erano comportati molto bene durante l’ intero tragitto durato quattro giorni, ora però si trattava di trovare una sistemazione, perché l’ospedale non forniva l’alloggio come a Charlotte. Bisognava stare nello stipendio che era alquanto modesto rispetto a quello che Enzo aveva avuto fino ad allora. I miei suoceri più tardi ci dettero un contributo per superare le difficoltà. Ricordo benissimo la lunga ricerca. Bisognava trovare un appartamento che fosse sicuro, cioè non troppo vicino ai quartieri abitati dalla gente di colore o ispanici, considerati i più pericolosi, perché avrei trascorso molto tempo da sola. Finalmente scegliemmo un appartamento a circa dodici chilometri dall’ospedale, in un condominio a schiera che aveva al centro una bella piscina per adulti e una più piccola per bambini. Houston ha un clima estivo umido e caldissimo. Non si riusciva a sopportarlo all’aperto se non ricorrendo a una piscina.
Vincenzo ha ormai una buona proprietà della lingua inglese, anche se non sempre comprende il terribile accento texano. La presenza e l’efficienza all’ospedale di Houston sono richieste senza sosta, giorno e notte. Chi non resiste è eliminato. DeBakey arriva in clinica alle quattro del mattino e vuole essere subito aggiornato sulla condizione dei pazienti, esame per esame. L’entusiasmo di Gallucci raggiunge le stelle quando si vede assegnato proprio al servizio di DeBakey, il maestro della chirurgia vascolare e cardiaca, l’uomo più celebrato a livello mondiale con pazienti che usano jet privati per venire a farsi operare da lui e che, cosa che allora fa molto effetto nell’ambiente medico, riceve da un paziente italiano una Ferrari come segno di riconoscenza.
Racconta ancora Luciana Gallucci:
DeBakey è piccolo, segaligno, temutissimo dai suoi interns e residents perché compare improvvisamente a tutte le ore. Secondo la leggenda dorme pochissimo. Pretende dal medico di guardia che sappia tutti gli esami dei vari malati, a memoria. Nessuno dei suoi pazienti deve mai morire o il povero resident è immediamente radiato dal servizio. DeBakey lo ricordo come un uomo dall’età indefinibile, maestro dell’altrettanto famoso Cooley, naturalmente più giovane e forse pericolosamente più bravo di lui.
Per Gallucci l’ammissione al servizio di DeBakey, significa trascorrere tre mesi nell’emergency room senza avere una stanza per riposare o farsi la barba, deve usare una barella per dormire qual- che ora. È una specie di iniziazione, chi non resiste è messo alla porta senza tanti complimenti, ed è considerato non adatto a fare il chirurgo cardiaco.
Mio marito, con la complicità degli infermieri poteva uscire una mezz’ora al giorno per stare con me e Stefano, il nostro primo figlio, in una stanzetta attigua all’emergency room. Andavamo, di solito, la sera, dopo le otto. Ci sedevamo su uno scomodo divanetto, Enzo posava la testa sulla mia spalla e si addormentava mentre Stefano giocava con le sue macchinette. Gloria invece era a casa con una baby sitter. Quell’anno fummo soli, i bambini ed io, anche a Natale, tutto in nome della cardiochirurgia. Ma fu anche l’unica volta che Enzo mi disse che era stanco e mi chiese, visto che avevamo solo una macchina, di andare a prenderlo, con urgenza, appena scattava il primo gennaio.
Gallucci vive questi due anni in una sorta di clausura. L’ospedale di Houston è praticamente la sua casa a tempo pieno. L’immersione al sapere della sala operatoria, della sua sala operatoria di cardiochirurgia, è totale e per lui anche liberatoria. Il mondo esterno, di fatto, non esiste.
Enzo non aveva certamente tempo per seguire i fatti quotidiani dell’America che viveva momenti intensi e drammatici: la morte dei Kennedy, la guerra del Vietnam, l’uccisione di Martin Luther King. Era abnorme che in una democrazia si potessero assassinare tre leader in così poco tempo. Gli americani si domandarono singolarmente cosa potessero fare per il loro Paese. Ritrovarono l’orgoglio nazionale grazie allo sbarco sulla Luna.
Quei mesi piazzati nel cuore degli anni Sessanta, sono esaltanti per tutto il mondo che vive a pieno i grandi fermenti culturali, che esplodono con la contestazione giovanile. Ottenuto il grado di Chief resident, Enzo deve ora scegliere entro pochi mesi se continuare la carriera negli Stati Uniti o tornare in Italia. Rimanere in America implica una fantastica prospettiva: niente burocrazia, molte opportunità, non solo di lauti guadagni.
Pur conoscendo le difficoltà che ci avrebbero atteso in Italia, dove ancora nella chirurgia cardiaca tutto era immobile, considerammo che certi valori spirituali, morali e culturali, di fondo venivano perseguiti solo nella nostra Patria. Non volevamo inoltre pensare che i nostri figli crescessero senza avere il gusto di vivere in città ricche di storia e assorbire così la bellezza, quotidianamente. E decidemmo così di tornare. Volevamo dare ai nostri figli il meglio delle nostre esperienze.
Anche dal punto di vista professionale la decisione è lungamente meditata. La grande esperienza maturata a Houston, convince Gallucci di possedere ormai sufficienti conoscenze del meglio della cardiochirurgia mondiale. Un bagaglio che sarà poi fondamentale per costruire il futuro della cardiochirurgia italiana.
Partimmo il 18 gennaio, compleanno di nostra figlia Gloria. Enzo in fondo non aveva mai davvero pensato di rimanere per sempre negli Stati Uniti, anche se il ritorno significava forse ricominciare tutto con il titolo di Assistente.