I vetri sono offuscati, a malapena nascondono le punte degli alberi che continuano a rincorrersi. All’infinito. Il movimento è lento, segue un ritmo costante, accompagnato dal vento e da una nebbiolina che s’infila nell’unica finestra lasciata socchiusa. Serve a far uscire il fumo di sigaretta. Il telefono squilla. Il suono è forte, allungo la mano mentre mi ripeto che devo ricordarmi di abbassare la suoneria. È troppo alta e nel silenzio è come una fucilata. Come la notizia che mi arriva, secca: «È morto Gallucci».
Guardo l’orologio, sono le 21.55 del 10 gennaio 1991. Al giornale, al mio giornale, diventa tutto improvvisamente tardi. Cambia la vita. Di milioni di persone. È strano come a volte situazioni, persone, luoghi, possano tornare improvvisamente alla mente. Il tempo tende ad appiattire, a sfumare i ricordi, mai a cancellarli. La morte riesce a sbiadire, ma è la vita che vince ogni qualvolta l’immagine di chi hai amato, stimato, ti riappare quando meno te lo aspetti. Il privilegio dell’età concede anche questo: il ritrovare inchiodati nella mente i compagni di viaggio che non ci sono più.
E allora hai bisogno di tornare indietro, di ripercorrere il passato affinché la memoria non cancelli vite meravigliose, uniche. Da consegnare alla storia per non perdere quel patrimonio di cultura, saggezza, sacrificio, rigore, che ha permesso a un’intera generazione di costruire con amore un mondo da lasciare ai propri figli, ai nipoti, a tutti coloro che immaginano la convivenza come un momento laico di dedizioni verso gli altri, di un passaggio verso Dio. Quando corri non hai tempo per guardarti indietro. Perdi i dettagli e la verità ti appare distorta. Bisogna invece fermarsi per recuperare, fare un viaggio a ritroso per ritrovare il senso della vita attraverso la vita altrui. Di coloro che hanno scritto la nostra storia, quella di buona parte del Novecento, percorso a una velocità incredibile. Vincenzo Gallucci è stato uno dei figli migliori del Secolo Breve, quello che ci regalato grandi lutti, grandi speranze per un futuro finalmente migliore. Quella che racconteremo non è solo la vita dello scienziato, del ricercatore, dell’immenso chirurgo, ma è soprattutto la storia dell’uomo, dei suoi sogni, delle sue battaglie, delle sue vittorie e sconfitte. Dei progetti dell’idealista, del realista e visionario che sognava una Cardiochirurgia proiettata al futuro e che guardasse al benessere primario dell’umanità, la ritrovata salute.
C’è, dentro questa nostra Terza corsia, molto dell’Italia del secondo dopoguerra, fatto di voglia di vivere, di costruire, di cambiare. Ma c’è pure lotta di potere, gelosie, invidie, cialtronaggine tipiche del nostro Paese che sembra avere una predisposizione naturale all’autolesionismo, al non comprendere i suoi figli migliori, arrivando ad emarginarli, impedendogli di compiere fino in fondo la loro missione. Vincenzo Gallucci è il simbolo della Terza corsia all’italiana, intesa come voglia di correre velocemente, per non perdere tempo, per arrivare primi senza mai lasciare nessuno indietro.
È però anche la Terza corsia di un’autostrada, dei lavori infiniti andati ben al di là di Italia ‘90, lì dove un’auto si è schiantata portandoci via per sempre la guida più illuminata della nostra speranza, del nostro futuro migliore. Gallucci ha rappresentato tutto questo. Non è stato perciò solo l’immenso chirurgo capace di rendere tutto disarmante, facile, anche l’impossibile, è stato soprattutto il medico, il ricercatore dall’enorme prestigio internazionale, forse il più grande mai riconosciuto a un italiano. È stato pure un maestro, capace di scegliere i suoi allievi migliori, offrendo loro opportunità e occasioni senza mai risparmiarsi, senza mai dimenticare tutte quelle sofferenze che ha dovuto subire lui per imporsi. Sapeva riconoscere il talento, sapeva costruire i talenti.
Chi ha vissuto a Padova, da protagonista oppure da semplice testimone, gli anni Settanta e Ottanta del Novecento, ha avuto la fortuna di partecipare a un grande progetto, condito da fermenti culturali, lotte politiche e sociali, rivoluzioni scientifiche. Eventi che si sono succeduti a un ritmo incalzante, regalando a tutti il senso della storia, del completamento di un grande disegno. È stato così per la Rosa dei Venti, le Brigate Rosse con i delitti di via Zabarella e dello Scaricatore, la liberazione di Dozier, la morte di Enrico Berlinguer, l’incredibile avventura del primo trapianto di cuore di Vincenzo Gallucci, in quella magica notte del 14 novembre 1985. Un film surreale dalle scene a volte sfumate, altre volte violente, dove morte e speranza si sono accavallate rendendo speciale la vita professionale di chi ha avuto la fortuna di raccontare, di testimoniare una città, un mondo che si stava rapidamente trasformando, lasciando nel cuore e nella mente la consapevolezza di aver incrociato, legato la propria vita, a quella di personaggi straordinari. Come Vincenzo Gallucci.
Lo ha ricordato papa Paolo VI nel 1978, pochi mesi prima di morire:
Vivere nella società non è oggi sempre piacevole; ci sono le tasse, ci sono le leggi, ci sono tanti scandali, c’ è una maniera di vivere che sembra quasi disturbare chi vuol vivere tranquillo e onesto. Dobbiamo invece vivere uniti agli altri anche se questa non è sempre una maniera facile e comoda di esistenza.
Già, il bisogno di non disertare moralmente e non scioperare civilmente lo dobbiamo sentire dentro. Non possiamo limitarci solo a sopravvivere. Per riuscirci c’è anche bisogno di non perdere il contatto con la realtà, con la parte migliore del nostro passato. Con Vincenzo Gallucci che Padova sembra aver dimenticato, relegandolo in una targa confinata in un insignificante passaggio stradale di periferia. Neppure l’onore di una via, di una piazza all’uomo dei sogni.
Gianfranco Natoli